“…affinchè i saggi tra gli uomini tornino a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza…”
(Z., p.3)
Questa frase dello Zarathustra di Nietzsche ci trasmette un insegnamento fondamentale: l’integrazione degli opposti.
L’intenzione di Nietzsche all’epoca, ma sempre attuale, è proprio quella di dare avvio all’enantiodromia (enantios – opposto, e dromos – corsa), letteralmente corsa all’opposto.
Già Eraclito (535 a.C.- 475 a.C.) con questo concetto indica il gioco degli opposti nel divenire, concezione secondo la quale tutto ciò che esiste deve passare nel suo opposto.
In un sano processo evolutivo, l’intenzione è di dare all’umanità ciò di cui essa manca, ciò che gli uomini odiano, temono, disprezzano; ciò che i saggi hanno perduto, la loro follia, e di restituire ai poveri la loro ricchezza.
La malattia più diffusa tra gli individui è l’unilateralità: una ricerca spasmodica di perfezione, a volte, o di abominio, altre.
Purché si rimanga saldamente avvinghiati a certi schemi, certi modelli, che danno l’illusoria percezione di sicurezza e stabilità, ma è solo una pia illusione.
Nel momento in cui proviamo a rimanere ancorati ad un modello o ad una convinzione, ecco che il nostro inconscio ci fa uno sgambetto, o per dirla in termini junghiani… “puoi assumere un atteggiamento artificiale, ma fa’ attenzione a che la tua Ombra non ti afferri per il collo o non ti assalga alle spalle”.
È proprio così.
Quando assumiamo un atteggiamento unilaterale ecco che la nostra Ombra, la nostra parte sconosciuta, ci fa gli agguati con un evento inaspettato, un trauma, una malattia, un sintomo qualunque affinché ci si possa discostare dalla parte rigida assunta, per poter riuscire a raggiungere e toccare la parte opposta, in nome dell’enantiodromia, in nome di una compensazione salvifica.
Basti pensare che, nell’ Antico Testamento, il primissimo tra tutti i princìpi è il “timor di Dio”, poiché Dio tremendo.
Nel Nuovo Testamento esso è stato ipercompensato dall’idea che Dio è amore e non bisognerebbe provarne timore.
Ma Dio è l’uno e l’altro.
Il Nuovo Testamento è precisamente una compensazione della terribile verità dell’Antico Testamento.
Questo incipit non vuole essere un messaggio meramente cattolico o religioso, ma vuole attingere al suo significato “cristologico” (che studia la parte umana del divino).
Accettare le proprie parti opposte significa, innanzitutto, accettare le parti di noi che detestiamo, che odiamo, che ripugniamo.
Questo ci consente anche di accettare le imperfezioni altrui, le debolezze, le fragilità.
Ci consente di far pace con l’errore; con la possibilità di sbagliare.
Come per tutte le cose, però, il rischio è lo scivolamento opposto: identificarsi cioè con l’errore, con lo sbaglio, con la parte che ripugniamo. Essere e diventare esattamente quella parte lì; perdere la propria anima e continuare ad esistere da morti essendo vivi, solo attraverso il corpo.
La verità è che non siamo né santi, né mostri, né bene, né male; siamo più complessi e semplici di così.
Una volta una persona cara mi disse: “Molto meglio essere un 6 sapendo di esserlo, che un 10 non sapendo chi si è in realtà”.
L’equilibrio per raggiungere la compensazione è un equilibrio così precario che richiede un’attenta oscillazione tra un opposto e l’altro, senza mai cadere da un lato o dall’altro. È molto faticoso però, richiede un grande lavoro su se stessi.
Mantenere questo equilibrio richiede uno sforzo e un impegno enormi.
Oscillare tra il desiderio di perfezione e la propria parte ripugnante toccando entrambe senza diventare una di queste parti, è ciò che di più onesto ed etico si possa fare.
Inseguiamo modelli che siano di perfezione o di abominio rinunciando alle nostre parti più autentiche, poiché i modelli le giudicherebbero difetti o debolezze.
È difficile rinunciare alla comfort zone di un modello, ma riuscire a farlo ci regalerebbe la gioia di guardare il mondo nella sua essenza e di amare ed amarci per quello che siamo.
Solo così scopriremo che, in questo mondo che ci sembra cattivo e assurdo, “ogni cosa è illuminata”