Un disperato bisogno di incertezze

“Da quando si è messo in piedi sugli arti posteriori, l’uomo non sa più riacquistare l’equilibrio”

Stanisław Jerzy Lec

Dopotutto, che cos’è una certezza?

Siamo alla ricerca spasmodica di certezze ogni giorno, costantemente, senza renderci conto, in realtà, che abbiamo un disperato bisogno di nuove incertezze.

Il mio intento in questo articolo non è quello di trasmettere un modo utile ed efficace per affrontare e accettare le incertezze, ma trasmettere il bisogno che ha questa nostra società contemporanea di avere, possedere, nuove incertezze.

In un’epoca dominata dal bisogno irrefrenabile di avere tutto sotto controllo, di prevedere il futuro, di sapere a tutti i costi come andranno le cose, ciò che manca è proprio l’incertezza.

A cosa serve avere nuove incertezze?

Innanzitutto è dall’incertezza che parte la scintilla divina, e bisognerebbe vivere questo stato emozionale (si, perché l’incertezza non è altro che uno stato emozionale) per poter avvertire dentro di se una sorta di spinta divina, che ci sprona ad andare oltre le cose, oltre noi stessi.

È proprio quando si costella il “non sapere”, l’imprevisto, l’inaspettato, l’incerto, che accade qualcosa. Quando non abbiamo risposte certe allora si muovono le forze cosmiche.

Nell’incertezza coesistono l’attesa, la sospensione, la sorpresa, il desiderio, la pazienza, l’accettazione. Qualità “divine”, ovvero che per altezza d’ingegno sembrano partecipare di una natura superiore.

Tornando a noi, il bisogno esasperato di certezze sembra essere legato alla paura di attingere ad una dimensione spirituale dentro di sé, la stessa che contiene anche la nostra parte più oscura, più temibile. Questo ci porta, spesso, a non rischiare e a rimanere fermi e immobili.

Pensiamo che avendo risposte certe e verità assolute in tasca siamo al sicuro, ma il radicamento stesso (ovvero assumersi consapevolmente la responsabilità di avere scelto questa incarnazione, essere qui e ora) passa necessariamente per la parte spirituale, ovvero quella incerta e sconosciuta.

Il bisogno di incertezza presuppone anche la possibilità di non sapere, o di non saper fare.

Jung dice che, anche e soprattutto l’analista, deve “non sapere” ed essere incerto sulla vita stessa, per poter aiutare il paziente. Quando l’analista pensa di saperne di più del paziente, è stato colpito dalla maledizione del Vecchio Saggio che è così perfetto. Perciò per l’analista è importante confessare di non saperne di più, o ne saprà di meno. Solo così darà un’opportunità al paziente.

Siamo cresciuti sin da piccoli con la convinzione che i nostri genitori sapessero tutto, che avessero certezze o, per lo meno, è ciò che ci hanno voluto far credere forse per poter acquisire potere e credibilità ai nostri occhi. Ma un genitore deve saper trasmettere la possibilità di non sapere, l’incertezza, il dubbio, solo così crescerà dei figli curiosi ed esploratori.

Nell’incertezza risiede anche il principio del cambiamento.

È necessario vivere nel cambiamento per essere creativi.

Friedrich Nietzsche diceva degli individui moderni…“Quelli cambiano, cambiano continuamente, ma non diventano mai niente”.

Potremmo qui riferirci alla posizione inerme assunta oggi dagli individui. Affrontare e accettare l’incertezza non significa rimanere fermi immobili, impassibili, aspettando che qualcosa accada, questo serve solo a riempire il tempo; accettare l’incerto presuppone l’azione, il movimento (inteso in senso psichico).

L’incertezza fa muovere in senso evolutivo.

Pertanto potremmo asserire che la crescita evolutiva, in ogni sua fase, in ogni sua epoca, richiede l’incertezza.

Con l’intelligenza l’uomo ha sopraffatto alla grande qualsiasi limite che la biologia imponeva, tutti gli ostacoli per cui l’uomo era programmato sono diventati estremamente semplici da superare grazie all’intelligenza.

Per fare un esempio, la tigre dai denti a sciabola pare sia stato l’unico predatore in grado di annientare l’uomo, di ucciderlo, di cacciarlo; l’uomo l’ha sconfitta portandosi al di fuori, ancora una volta, da un contesto naturale che fosse di equilibrio.

Nel suo habitat l’uomo era formato per avere un nemico naturale, ma l’uomo l’ha vinto, l’ha distrutto. Quando ci sono degli equilibri non bisogna mai vincere, bisogna continuare a stare nel ciclo di vita e morte, ovvero nel ciclo evolutivo naturale.

A livello psichico, avendola avuta vinta, l’uomo si è dovuto creare dei mostri artificiali, delle paure artificiali, che ricordano le paure ancestrali, paure reali di cose che avevamo realmente millenni fa ma che oggi non abbiamo più.

L’uomo va troppo di corsa da un punto di vista intellettuale rispetto allo sviluppo biologico.

Dai sacrifici umani fatti per accattivarsi le divinità tanto impalpabili, quanto temibili, all’uomo nero dei racconti della nostra infanzia, che mette paura, e non si conosce, ai dipinti di Francis Bacon, Pollok, Basquiat, e molti altri, esempi della rappresentazione di questa inadeguatezza dell’uomo si trovano nella cultura, nell’arte e nelle religioni di ogni popolo.

I periodi migliori e di completezza per l’essere umano nel suo insieme, sono stati i più difficili, in realtà, perché l’uomo è fatto per le difficoltà.

Difficoltà come incertezza, dunque.

Reagire alle difficoltà mette l’uomo al massimo delle sue possibilità genetiche; di conseguenza il bisogno di incertezze si configura come una necessità genetica dell’uomo.

Ad esempio, nel film “The Village” (2004), alcuni hippies degli anni ’70 si rifugiano in una riserva protetta nei boschi per sfuggire alla modernità e al dolore del quotidiano.

Creano, così, un villaggio con tradizioni e tecnologia dell’inizio del 900, inventandosi dei mostri misteriosi e minacciosi che costringono le persone a rimanere prigioniere all’interno dei suoi confini.

Incredibilmente, queste persone facoltose nel costruire il loro Eden lo immaginano fatto di una vita semplice e di mostri che la minacciano.

Il bisogno dell’essere umano è, dunque, quello di aver dei totem e dei tabù; si ha bisogno di incertezze e di difficoltà per superare i propri limiti, tant’è che nel film, molto simbolicamente, è proprio la persona più fragile, quella considerata più debole da tutta la comunità, colei che riesce a fuggire dal villaggio, a salvarsi e ad infrangere il tabù.

La felicità, intesa come perfezione, non sembra essere fatta per l’essere umano.

Questa vittoria sulla natura che ha avuto l’uomo quando “si è alzato in piedi”, come dice Lec, con l’intelletto, ci ha lasciato un vuoto.

Nella cultura odierna, ad esempio, il fenomeno del populismo, o quello degli haters, ci dice che abbiamo bisogno a tutti i costi di un nemico contro cui combattere; ma quello che combattiamo non è mai il nemico adatto, dato che in questo fenomeno l’uomo è mosso esclusivamente da un bisogno ancestrale, dunque totalmente inconscio e senza una logica.

Il populismo, pertanto, risponde al bisogno di avere incertezze, di trovare un nemico da temere e semmai da sconfiggere in quanto spinta arcaica naturale.

Un modo per assecondare questo bisogno senza farsi sopraffare è avere un progetto.

I movimenti populisti o gli haters non hanno un progetto, hanno solo degli illusori forconi da puntare ciecamente contro qualcuno di cui neanche conoscono il volto. Sono dei movimenti ciechi, privi di progettualità.

Quando progetti qualcosa rischi, corri il rischio, ti metti in gioco, ti metti nelle mani dell’incerto e sei talmente tanto concentrato a far ciò, da non aver bisogno di avere e vedere nemici ovunque.

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